penelope #14
Bentornati su penelope, la newsletter che ti segnala che lì, proprio lì, c’è un racconto bello da leggere. Primo appuntamento del 2019, tre racconti boom boom boom, nient’altro da aggiungere. Buona lettura.
Il silenzio che occupava il pomeriggio aveva un doppio fondo, dove Paolino aveva perso alcune parole e il suo aereo preferito, bianco e verde, pilotato da una Divinità dell’inverno. Con lo sguardo cercava di solcare i volumi delle stanze, per vivere lungo il soffitto, dove stazionavano come balene i corpi deformi delle sue paure, le idee mute che lo accompagnavano ancora. Camminando credeva di nuotare nell’aria, nelle immagini successive delle stanze. Credeva che Dio fosse dietro la porta e la solitudine era una dimensione parallela, aperta oltre il suo viso, che esplorava ogni volta più a fondo.
Gherardo Bortolotti, Storie del pavimento; continua su «Le parole e le cose», qui; (le Storie del pavimento sono state poi stampate da Tic Edizioni in un bel libretto, che mi permetto di consigliare)
Aveva dodici anni, quel corpo ero io.
In vacanza, Ortisei, montagne, genitori. Un supermercato. La madre sceglieva le arance, il corpo aspettava in un piccolo reparto strano di cose preziose: quotidiani, riviste, quaderni, guide, info turistiche, libri, poi improvvisamente apribottiglie, vasellame, pentole. Anche lui era una cosa preziosa. Ogni tanto due occhi di madre sbucavano da un angolo per controllarlo. Espositore girevole: potevano essere occhiali da sole di plastica, o fochine di peluche, invece era “Christine – la macchina infernale”. Copertina nera, caratteri cubitali cangianti, tutto maiuscoletto: sembrava merda commerciale, lo aggiunsi al carrello con le arance, le patate. I miei genitori non fecero una piega.
Stefano Sgambati, Corpi; continua su «Grafemi», qui
Mi raccomando parla ammodo, pare che tu li prenda in giro! Ogni anno sulla strada per Trassilico mia nonna mi dava sempre la stessa lavata di capo preventiva, ma non serviva a nulla: superate le ultime curve e il massiccio lavatoio, ai primi tetti delle case io attaccavo col garfagnino. Le g si ispessivano, le t si trasformavano in d e io ero pronta per un altro luglio da villeggiante di montagna che cercava di confondersi il più possibile con gli abitanti autentici. Compivo tredici anni quell’estate e non sapevo che sarebbe stata l’ultima trascorsa a razzolare libera tra le viuzze di pietra, dove le auto non potevano entrare, e a tirare gavettoni nella piazzetta da cui si ammirava la Pania. I boschi potevo scordarmeli: in primavera era scomparso un vecchio andato a funghi e mai più ritrovato, così nonna mi aveva vietato qualsiasi esplorazione solitaria ma non m’importava, avevo tutto il paese per me.
Ilaria Giannini, L’asino dell’Orsi; continua su «L’indiscreto», qui
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